Pubblichiamo di seguito l’intervento del direttore del Centro Milanese di Terapia della Famiglia, Pietro Barbetta – sulle caratteristiche dell’odio, la patologia della confusione tra singolare e categorico – all’Incontro internazionale di GariwoNetwork 2018.
Tyger! Tyger! Burning bright
In the forests of the night:
What immortal hand or eye
Could frame thy fearful symmetry?William Blake
Che fine ha fatto il soggetto
Negli anni della mia formazione leggevo i testi della Scuola di Francoforte ricordo che si usava un termine ormai desueto, che vale la pena di riscoprire: “tecnocrazia”. Dopo il fallimento delle rivoluzioni, gli esponenti della Scuola di Francoforte furono i primi a prendere atto che la classe operaia aveva aspirazioni a diventare borghese, piuttosto che a fare la rivoluzione. Come mi disse una persona rumena, che frequenta i miei incontri di psicoterapia: “Per noi, il comunismo eravate voi occidentali, le vostre ville lumière et tentaculaire, passavamo le notti in clandestinità ad ascoltare le vostre pubblicità.” Il capitalismo è stato una macchina che cattura il soggetto e lo stordisce con la sua opulenza.
Oggi però siamo di fronte a un salto iperbolico. In molti oggi parlano di antropocene: antropologi, filosofi, biologi, geologi. Si sostiene che il soggetto non è più “persona”, ma network composto da una varietà di elementi interconnessi tra loro: dai virus, ai neurotrasmettitori, dai farmaci, alle macchine, dalle burocrazie, ai social networks, dal terrorismo, alle guerre, dagli eventi naturali di carattere catastrofico, alle nuove invenzioni delle tecnologia che dovrebbero facilitare la vita, ma che spesso non funzionano, ecc. La sede della responsabilità sarebbe simmetricamente distribuita nel network di questi sistemi. Ognuno di noi è catturato dentro questa rete, che ci costringe a osservare il trascorrere degli eventi passivamente, come fossimo su una barca alla deriva.
Il paradigma Genova
Quando accade un qualsiasi evento catastrofico, per esempio il crollo del ponte di Genova, si apre un dibattito intorno alla responsabilità dell’accaduto. Alcuni concludono che le responsabilità vanno distribuite a differenti livelli: chi ha progettato quel ponte, chi lo ha commissionato, chi ha trascurato di fare manutenzione, chi lo gestiva, ecc.; ma anche alla tenuta delle giunture metalliche interne, al cemento armato che le rendeva invisibili, al tempo che ha eroso le giunture, al peso del traffico, ecc. Il problema è che questo network si è trasformato in un destino, e la nostra concezione del tempo è cambiata, l’inconscio sociale ci sta portando a vivere un tempo che non è più Kronos, ma è un tempo destinale, un tempo tragico. Come sta mostrando Anne de Carbuccia in alcuni video intitolati “one planet, one future”, il tempo del network sta erodendo il pianeta.
Di fronte a questo fenomeno, l’eroe, il carisma, propone un modello antagonista uguale e contrario e ottiene consensi. Mentre un tempo le masse preferivano diventare borghesi, piuttosto che fare la rivoluzione, oggi le masse sono disposte a impoverirsi per seguire il carisma, l’eroe antagonista. L’eroe grida, non trova neppure un momento per piangere i morti di Genova, per le condoglianze, perché accusa il suo nemico di avere fatto crollare il ponte, di essere un assassino, il capro espiatorio ritorna ad essere il nemico da linciare. L’eroe pretende di liberare il suo popolo, la nazione, dai vincoli di questo network, che viene immediatamente indicato come Europa, l’Europa è il nostro nuovo nemico. In ciò coglie un malcontento reale, un seguito disposto persino a perdere i propri risparmi, disposto a una rinnovata forma di dissipazione.
Individuando il nemico si crea una network ancor più potente, fatto di insulti e squalifiche, una rete che limita la posizione del soggetto in mondo ancor più totalitario: la rete ci cattura? Ebbene togliamo la libertà di stampa, di parola, di dissenso, uccidiamo gli infedeli, attacchiamo le regole della democrazia, creiamo antagonismi. Così l’eroe, il carisma, ottiene consensi, stimolando il risentimento e il rancore di chi si sente impotente di fronte al carico di tasse che deve pagare, all’immigrazione di persone che potrebbero mostrare maggiore passione, sensibilità e cultura di chi si sente padrone in casa propria. L’odio emerge da questi sentimenti di insicurezza alimentati dai dittatori che popolano l’occidente e che usano argomenti insultanti per mettere gli uni contro gli altri .
Le caratteristiche dell’odio, la patologia della confusione tra singolare e categorico
Una strategia per combattere l’odio è pensare al singolare. L’odio si fonda sul disprezzo verso categorie umane altre dalla categoria di cui saremmo rappresentanti. C’è una serie nell’odio: verso le donne, verso i neri, verso gli ebrei, verso gli zingari, verso i richiedenti asilo, i rifugiati, gli apolidi, i nomadi, i pazzi, ecc. È una serie aperta, fatta di categorie. L’odio si coltiva nel rancore e si esprime nell’insulto. Se una donna ha una relazione fuori dal matrimonio entra nella categoria delle prostitute, se un nero commette un crimine, entra nella categoria delle predisposizioni ai comportamenti antisociali, evoca i discorsi psichiatrici sull’indole delle razze umane. L’odio segue un tipo di ragionamento semplice, pulsionale: se un individuo, che appartiene a una categoria di persone altra dalla mia, si comporta diversamente da quelli che appartengono alla mia categoria di persone, allora tutta la categoria a cui costui appartiene ha gli stessi comportamenti. Ma esistono cose come “categorie di persone”? Un tempo venivano definite razze, per esempio. Oggi l’odio si è sofisticato, non parla più solo il linguaggio delle razze umane, aggrega altre categorie, ad esempio: “i rifugiati”, che hanno come essenza quella di “invadere i nostri territori”. Questo è un esempio di come si esprime oggi l’odio.
Chi combatte questa supposta “invasione del mio territorio”, è il “mio eroe”. La complessità di un fenomeno viene ridotta a un meccanismo delirante di causa-effetto. Si forma il carisma, l’eroe che salverà le masse, che possiedono un territorio, da invasori che appaiono come virus. Passando il confine svizzero, ricordo una recente intervista a un rappresentante dell’industria farmaceutica di quel paese, un lapsus linguae; accusato di favorire l’assunzione di frontalieri italiani, rispose: “Assicuro che l’industria farmaceutica svizzera è assolutamente ‘sana’”. In questo caso il virus è composto da lavoratori che vivono in provincia di Varese e magari, molti di loro, pensano ugualmente degli immigrati a Varese. Ecco il punto: l’odio, come ogni forma pulsionale, che si fonda su un modo di ragionare semplice e immediato, assume una forma paradossale: chi odio se non me stesso? Chi disprezzo, se non la stessa categoria di persone a cui appartengo? Quando parlo di invasione di persone, che considero inferiori, non sto in realtà parlando della mia impotenza? Non sto pensando che gli altri, se mi rubano il lavoro, sono più intelligenti, capaci, sensibili, impegnati di me e di quelli della mia categoria? Non è forse questo senso di inferiorità che provo che mi porta a uccidere la donna che mi sta a fianco, che mi porta a invocare un eroe carismatico che caccia l’invasore? Che mi fa diventare l’eroe carismatico che stermina gli infedeli?
Come ritrovare il soggetto della speranza?
Ricordo il principio di speranza di Ernst Bloch, oggi qualcuno la chiama resilienza: insistere a sperare che il soggetto – qualsiasi cosa si intenda: l’habeas corpus, il soggetto del desiderio, il soggetto collettivo, ecc. – riemerga attraverso i minuti particolari, nella singolarità. Gregory Bateson, citando il poeta William Blake, scrisse: “Il bene si fa nei minuti particolari”, ma che cosa sono questi “minuti particolari”? Quando un medico opera una persona ferita, durante un conflitto, non chiede se il ferito è un nemico, quando un giusto salva una vita in pericolo, non si preoccupa se la sua ideologia, etnia o religione è diversa dalla propria, quando uno psicologo lavora nelle carceri, o con i richiedenti asilo, è lì per accogliere il soggetto, per ricomporre l’infranto e ridargli la speranza, per ascoltare la sua vita, le sue peripezie, gli eventi che lo hanno portato lì. Il giusto esercita il rispetto e mostra coraggio, il giusto non ha una vita irreprensibile, il suo è un gesto, in quel momento si espone, ma non è un eroe perché la sua azione si svolge all’interno dei minuti particolari: è un medico che salva un criminale ferito a morte, un ambasciatore, magari un falso ambasciatore, che salva ebrei destinati allo sterminio, un imbonitore, un imbroglione che aiuta qualcuno a salvarsi, anche attraverso la sua sfacciataggine, un Totò che ci domanda se siamo donne/uomini o caporali. Al salto iperbolico che ci ha trasformati in soggetti privati della nostra responsabilità, dobbiamo rispondere con un altro salto iperbolico, quello di cui ci ha parlato Jacques Derrida nel suo lascito testamentario: perdonare l’imprescrittibile. Attenzione, non si tratta di esercitare un perdono generalizzato e poco credibile, si tratta di fare un gesto nella singolarità del momento, come la pioggia pura che cade dal cielo sulla testa dei re.
Essere Giusti
Se la coltivazione dell’eroe avviene in un contesto pulsionale di causa-effetto, dentro un modo di ragionare ridotto, semplice, la cultura del Giusto esige la singolarità: “il bene si fa nei minuti particolari”, sosteneva Gregory Bateson, citando William Blake. Bisogna saper aspettare perché l’eroe, che in apparenza è tutto d’un pezzo, facilmente si frantuma e torna a casa ferito. Chiunque pratica il male lo fa in primo luogo contro se stesso e non può che tornare a casa piangendo se stesso. La psicologia se ne accorse quando l’Europa fu preda delle guerre, dopo la Belle Époque, a partire dal 1914. In quegli anni al corpo del desiderio sessuale si sostituisce il corpo ferito del veterano di guerra. Si incomincia ad avere a che fare con le ferite, le torture, le carceri, i luoghi dell’aggressione, della punizione.
La clinica, quella del medico, dell’infermiere, dello psicologo, si trasforma. Il giuramento clinico ci insegna a non guardare chi sia la persona ferita, come tale va protetta, va curata. La clinica ci costringe a essere giusti. Si tratta dell’ospitalità, la stessa, sosteneva il filosofo Jacques Derrida, che veniva praticata nei conventi. Derrida ce lo ricordava quando aveva fornito un importante contributo a ripensarla. Il suo intervento al Consiglio d’Europa del 21-22 marzo 1996, presso il Parlamento internazionale degli scrittori, proponeva la costituzione di “città rifugio”; luoghi dove i richiedenti asilo potessero trovare protezione umanitaria al di là del diritto positivo e delle norme, definitive o temporanee, di ciascun paese. Al di là di quanto avevano commesso, in un salto iperbolico, che rende l’ospitalità assoluta, che va al di là dell’imperdonabile e dell’imprescrittibile. Questo il lavoro del giusto: “So che tu sei un divenire, e non appartieni necessariamente alla categoria di persone a cui appartieni.” È questo il paradosso del giusto: come divenire, ogni evento fornisce gli strumenti per uscire dalla categoria. Vale per il perseguitato, vale per il persecutore, basti leggere Legacy of Silence, un testo dello psicologo israeliano Dan Bar-On, che riuscì, in Olanda, a creare gruppi di auto mutuo aiuto tra i figlie dei persecutori nazisti e delle vittime.
Antagonismo versus dissenso
Da giovane mi dissero che la disubbidienza poteva essere una virtù, oggi ho imparato che i capricci, le lamentele, le proteste e persino i sintomi dei bambini – la vivacità, la disattenzione, la pipì a letto, la popò nelle mutande, le urla, le testardaggini – non sono altro che becchettate di un passero ai vetri, fuori dalla finestra di casa; sono segnali di dissenso. Spesso il dissenso è più forte, più tenace, dell’antagonismo.
L’antagonismo vede nemici dappertutto, è una condizione paranoica. I campioni mondiali di antagonismo furono Robespierre e Stalin, che mettevano a morte i loro stessi alleati. La logica amico/nemico ha fatto disastri e rischia di ripetersi. L’antagonismo parte da un premessa impossibile: tutto e subito. L’antagonismo è un Moloch che rende le due parti identiche, crea identità e non vede più differenze, produce totalitarismo: quando anche il minimo dubbio diventa tradimento, quando due gruppi umani producono tra loro una scissione, una Spaltung. Un fenomeno che lo psichiatra Eugen Bleuler aveva definito “schizofrenia”. Ai tempi di Bleuler si pensava a un disordine mentale irrecuperabile, inguaribile. Successivamente molti psicologi e psicoanalisti trovarono il modo di entrare in contatto con “gli schizofrenici” e oggi qualcuno propone addirittura di abolire questa categoria diagnostica. Che significa? Credo voglia dire che, anche nelle condizioni più difficili e complesse, bisogna avere fiducia nelle nostre capacità di esercitare la tenerezza, di osservare le piccole differenze che permettono a ognuno di uscire dai muri che vengono loro costruiti intorno.
Spesso si parla del fascino del male, ma il male diventa affascinante quando è immerso in una dimensione ironica, quando, nel venire descritto e raccontato, mostra la differenza tra la crudeltà e la vita quotidiana. Ciò che è affascinante è la vita, non il male, l’immanenza della vita dalla quale non possiamo mai uscire.
Termino con il sogno di una donna: “Tengo un gattino tra le braccia, nella mia stanza c’è una tigre pericolosa, mi costringono a entrare, la vedo, ha il corpo pieno di aculei, mi insegue, cerco di fuggire con il gattino tra le braccia, ma la stanza è piccola. Mi accorgo che non vuole sbranarmi, scorgo che sulla testa non ci sono gli aculei, si avvicina e io l’accarezzo, voleva solo un po’ di tenerezza”.